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Tra i primi ad essere fucilato "cucciolo"

San Colombano: l’eccidio di Paie nel ricordo di Renato Lagomarsino

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Renato Lagomarsino

Da Renato Lagomarsino, Lascito Cuneo

In Fontanabuona ricordo dell’eccidio nel bosco delle Paie a Calvari.

Il 2 marzo 1945 vennero fucilati dieci partigiani. Oggi la rievocazione.

La sera del 2 marzo del 1945 nel bosco delle Paie, a metà strada fra Calvari e Certenoli, due località a quel tempo collegate con la sola mulattiera, vennero fucilati dieci partigiani. Oggi, nell’esatta ricorrenza del 79° anniversario, ne Vine fatta la rievocazione. Non, come tradizione, nella solitaria cappelletta costruita in mezzo al bosco, ma a causa del maltempo nella non lontana chiesa parrocchiale.

Io, che allora avevo poco più di tredici anni, e Davi Torre, che ne ha cinque meno di me, siamo rimasti, per ragioni di età,  gli unici testimoni  che conservano memoria di quel tragico avvenimento.

I miei ricordi sono vivi e altrettanto quelli di Davi. In paese, a Calvari, dai primi di agosto del ’44 si erano acquartierati gli alpini della Divisione “Monterosa”;  tre chilometri più a valle, a Chiesanuova di Aveggio, c’era il comando tedesco.  Mio padre aveva pensato bene di trasferirsi con la famiglia a Barbarasco, a mezz’ora di cammino a piedi, sulla collina, nella casa degli zii.

Il 28 febbraio, proprio sotto la casa che avevamo da poco lasciato, a metà di Salita Castello, un alpino, Ado Ronconi, di vent’anni, venne colpito a morte in un agguato che aveva come obiettivo non lui ma il tenente Carlo Kisterman, di cui era attendente. Si seppe poi che l’attentatore fu un giovane di Casareggio d’Orero che intendeva vendicarsi del comportamento violento di Kisterman durante  i rastrellamenti.

La rappresaglia fu immediata. Il giorno dopo dalle carceri di Chiavari vennero prelevati dieci partigiani, di cui otto catturati un paio di settimane prima in un rustico sopra Lorsica, sulle falde del Ramaceto, dove avevano prestato assistenza a “Bisagno” infortunatosi per una caduta su un sentiero ghiacciato.

Portati a Calvari il 1° marzo con un camion,  che sostò davanti all’osteria Torre dove aveva inizio la mulattiera per Certenoli, avrebbero dovuto essere fucilati nel bosco delle Paie ma, in assenza di una sentenza di condanna, l’ufficiale degli alpini destinato a comandare il plotone di esecuzione si rifiutò.

A Chiavari, dove vennero riportati, il giorno dopo, cioè il 2 marzo, venne convocato il cosiddetto “Tribunale di Guerra” che emise la condanna applicando la legge militare del “dieci per uno”. Sul far della sera il camion, con due panche ai lati del cassone, riportò i dieci partigiani a Calvari. Dal bar Torre, sull’altro lato della strada, videro con sorpresa che tra loro c’era anche Rinaldo Simonetti, un ragazzo di diciott’anni di Certenoli, che la sera precedente non c’era. Rinaldo si era arruolato con i partigiani, e per la sua giovane età gli venne assegnato il nome di “Cucciolo”. Anche lui era stato catturato nel casone di Lorsica assieme agli altri, tra cui il comandante Vinicio Rastelli, “Dedo”, che però nella sentenza non figurava tra i condannati a morte. Di chi prese il posto “Cucciolo” ancora oggi è un mistero.

La fucilazione avvenne attorno alle diciotto. Ricordo che, a Barbarasco, sentii un crepitio, ma non erano i tipici colpi di una scarica di mitra. Salii al piano di sopra e mi misi in ascolto. Allora le notizie si conoscevano con ritardo. Non si sapeva nulla dei partigiani portati a Calvari il giorno prima, riportati a Chiavari e la sera dopo nuovamente a Calvari. Si sapeva solamente dell’uccisione dell’alpino, anche perché il mattino presto erano arrivati i tedeschi a fare rastrellamento e controlli.

La mia attesa venne interrotta improvvisamente da un ordine secco che risuonò nel silenzio della campagna in direzione del bosco delle Paie: “Fuoco!”, e subito dopo una scarica di colpi come quella che avevo udito poco prima.  Poi alcuni colpi isolati seguiti da un rumore di scarponi sull’acciottolato come se un gruppo di persone stesse percorrendo di corsa la discesa verso Calvari.

Ma il mattino dopo sapemmo cos’era successo. Da Certenoli era venuto a lavorare in un uliveto accanto alla casa dove eravamo ospitati Paolo Simonetti, il mite “Paolin”, padre di Rinaldo, che disse: “Ieri sera nel bosco hanno fucilato dei partigiani, ma mio figlio per fortuna non era tra loro…. Hanno imposto di lasciarli lì”.

Non passa molto, però, che arrivano due suoi vicini di casa. “Paolin – gli dicono – devi venire con noi…… Anche tuo figlio è tra i fucilati”.  Ricordo che la reazione non fu una sorpresa. Forse aveva un presentimento e per questo era venuto a lavorare nell’uliveto per ritardare la conoscenza della realtà.

Si seppe dopo che i dieci partigiani erano stati fucilati in due tempi, cinque alla volta. Uno di loro da piccolo non era stato battezzato e il povero don Giuseppe Minetti, l’arciprete di Certenoli che era stato chiamato per impartire l’estrema unzione, volle battezzarlo, ma l’acqua benedetta dovette essere prelevata in chiesa. Nell’attesa il comandante del plotone decise di fucilarne cinque e gli altri dovettero assistere a quella che possiamo definire una vera carneficina. I colpi isolati che avevo sentito erano i “colpi di grazia” sparati con la pistola per chi tardava a morire.

“Cucciolo” fu tra i primi cinque. Don  Minetti lo conosceva bene, lo aveva visto crescere e giocare sul sagrato assieme ai ragazzi del catechismo. Prima di morire volle scrivere su un foglietto l’addio ai genitori, alla sorella e al fratello, concludendo con la frase “muoio per la salvezza dell’Italia”.

Sul luogo dell’eccidio l’anno dopo, il 3 marzo del ’46, venne inaugurata la cappelletta dove ogni anno viene ricordato il sacrificio dei dieci partigiani. Una testimonianza molto significativa che purtroppo non c’è più sono le piante di castagno che in alto,  dove iniziavano i primi rami, recavano i segni di numerosi colpi d’arma da fuoco.  Era la dimostrazione che alcuni, pur facendo parte del plotone, non avevano voluto infierire sui loro fratelli. C’è chi dice che fossero giovani di Calvari e dintorni rimasti nascosti per mesi e da poco arruolatisi nella “Monterosa” per non far correre rischi ai loro familiari. La guerra ormai si avviava all’epilogo e infatti poco meno di due mesi dopo aveva termine con la sconfitta dei tedeschi e dei fascisti e il ritorno della Libertà.

 

 

 

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