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Tigullio: quando malattia voleva dire maleficio. I nostri avi (e noi) fra medicina e magia

Generico febbraio 2024

Negli ultimi anni ci è capitato molto spesso di ascoltare un curioso invito, quello ad avere “fede nella scienza”. Mentre si poneva l’accento sul secondo termine, si evocavano forze più profonde e radicali, più inclini al piano della religione, del rito e della purificazione collettiva che a quello dei camici bianchi. Una mera coincidenza? Niente affatto. Possiamo constatarlo ogni giorno: l’uomo moderno vive ancora al confine fra due dimensioni apparentemente conflittuali e tuttavia difficilmente separabili: la scienza e la medicina ufficiali da un lato, la fede nell’intervento soprannaturale – quando non nel potere taumaturgico di oggetti, luoghi, fonti, rituali – dall’altro. Occorre tenerne conto. Occorre indagare le forze recondite che muovono i fili delle comunità umane, spesso nascoste fra le pieghe del folklore e dei “vecchi rimedi”.

Quasi 20 anni fa, nel 2005, usciva “Medicina e Magia popolare in Liguria. Un viaggio tra i misteri, i riti e le credenze della tradizione popolare”. Il libro, firmato dall’antropologo Massimo Centini, si sofferma sui molteplici aspetti che fino a non molto tempo addietro rendevano la pratica medica un tutt’uno con la magia, a partire dall’idea che la malattia non era un fenomeno isolabile biologicamente, ma la risultante dell’aggressione di forze ostili, spesso oscure e sottili, o l’effetto dell’inosservanza di regole morali quando non dell’infrazione di un tabù. “Per lungo tempo maleficio equivalse a malattia”.

La magia interessava tutti gli ambiti della vita contadina di un tempo, a partire dal primo: il venire al mondo. Dalla Liguria puntiamo allora il focus sul nostro Tigullio, per capire come luoghi, energie, pratiche e rituali influenzavano la vita dei nostri avi. “A Borzonasca nei pressi del rifugio “Monte Aiona” – racconta Centini – si trova un masso la cui forma particolare ne ha condizionato la storia: c’è chi sostiene si tratti di un meteorite. Pare che possieda la capacità di far variare il campo magnetico e qualcuno ha cominciato a diffondere la tesi secondo la quale questa pietra avrebbe dei legami con le culture extraterrestri. (…) La tradizione popolare ne ha fatto un oggetto quasi magico che avrebbe la proprietà di diffondere energie utili per favorire il parto e sanare i dolori reumatici”. Il parto era considerato un fatto così delicato e incerto che si aveva timore a dichiarare che la donna era incinta o gravia, parole “del gatto”. In val Graveglia diceva piuttosto “A l’è a quello moddo” o “A l’aspeta”. A Chiavari “A l’aspete famiggia”.

“Per favorire il parto (…) frequente era l’uso di talismani”, scrive ancora Centini. Secondo il notaio rapallese Giovanni de Amandolesio – siamo nel XIII secolo – per garantire un parto indolore sarebbe stato sufficiente legare alla coscia destra della futura mamma un cartiglio su cui ricopiare il celebre e misterioso quadrato letterale Sator Arepo Tenet Opera Rotas. Anche l’allattamento era oggetto di forte considerazione. In Val Graveglia –  lo riporta Hugo Plomteux –  si suggeriva di non far manipolare il latte a una donna che allatta, perché andrebbe a male sia il suo latte che quello che munge o che lavora per fare il formaggio.

Il libro dà anche ragione di un fenomeno che molti di noi hanno vissuto in prima persona, nella propria esperienza di nipoti: la devozione popolare dei vecchi verso santi come Sant’Antonio Abate; santi che rifletterebbero il potere taumaturgico della divinità con una maggiore “umanizzazione”, figure più “accessibili”, e più vicine – aggiungiamo – alle antiche divinità pagane che nelle nostre valli resistettero diversi secoli dopo l’editto di Tessalonica.

Il potere delle figure oggetto di venerazione viene spesso veicolato attraverso le immagini o altri oggetti che ne evocano la presenza e la forza. “Possono far parte della pratica terapeutica (…) il crocifisso, effigie della Vergine o di un santo, acqua benedetta, reliquia ecc. (…) Il potere terapeutico delle effigi è particolarmente legato alla Vergine: ad esempio, a Chiavari, l’effigie della Madonna dell’Orto (…) è considerata in grado di favorire le guarigioni delle malattie contro le quali la scienza spesso è impotente”. Questa fama sarebbe sorta, ovviamente, quando le si attribuì  la grazia di aver salvato la città dalla peste.

Sotto la lente di Centini finisce anche un tema molto caro a noi tigullini, il rapporto fra i santuari mariani e l’acqua. “Un rapporto stretto, atavico soprattutto perché questo elemento rappresenta uno dei simboli primigeni del materno, ma anche perché il binomio acqua-purificazione è una costante della tradizione sacra e rituale”. Anche in questo caso, consapevoli della fede che ci lega a questi luoghi, possiamo misurare l’impotenza della scienza di rendere piena ragione dell’agire umano. Del Tigullio Centini cita due santuari: ça va sans dire, quello di Nostra Signora di Montallegro, durante la cui apparizione “sgorgò miracolosamente una fonte d’acqua (…) considerata dotata di poter soprannaturali”, in particolare “per stabilizzare l’eccessività emotività e nelle allergie”; e quello di Nostra Signora del Bosco di Lumarzo, che deve la sua origine a un’apparizione del 1555. Nei pressi del santuario si trova una sorgente (…), la Fontana della Madonna (…) Viene detta terapeutica anche se, obiettivamente, le informazioni (…) sono molto scarse”.

La domanda centrale investe la logica interna al pensiero magico: perché, per togliere il malocchio, si imponeva sulla testa del paziente una fondina con acqua e tre chicchi di sale in cui il guaritore versava tre gocce d’olio, certi che se si espandevano si era di fronte a un ammaliamento che richiedeva la recita di formule precise?  Potremmo facilmente chiamare queste pratiche mera superstizione, ma probabilmente – almeno questo è il parere dello scrivente – cefferemmo il bersaglio: dietro questo “sapere pratico”, forse materia residuale e degenerata di una scienza precedente il nostro ciclo storico, agisce la pretesa di connettersi, per via analogica e simbolica, a un sovramondo di cui il nostro piano di esperienza sarebbe una manifestazione. Agendo sul secondo – del quale noi potremmo sapere poco non perché di mera fantasia, ma per ignoranza – interverremmo sul primo. Platonismo contadino, potremmo definirlo. Per questa ragione, avendo noi perso totalmente ogni slancio verticale e ogni contatto con l’Altro, conviene evitare giudizi semplicistici sulla superiorità della nostra civiltà rispetto a quella dei “nonni”: la vera superstizione potrebbe essere la nostra presunzione.

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