Fontanabuona: la "banda" del pane. Quando in tutto il Tigullio si mangiava il "cicagnino" - LevanteNews
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Fontanabuona: la “banda” del pane. Quando in tutto il Tigullio si mangiava il “cicagnino”

Generico marzo 2023

“…Un tempo gli uomini dell’universo contadino prenazionale e preindustriale non vivevano un’età dell’oro. Essi vivevano l’età del pane” – Pier Paolo Pasolini

C’era una volta – a cavallo del ‘600 – un pane, prodotto in un paese del nostro entroterra, che aveva la nomea di essere eccezionalmente buono. Era il pane di Cicagna. Sul perché questo pane fosse così prelibato le ipotesi sono molte. Qualcuno dotato di fantasia potrebbe pensare a un sortilegio magico, in un paese dove tutte le donne, che si diceva fossero organizzate in una vera e propria setta, avevano la nomea di streghe. A pro di chi preferisce la logica e la ragione, invece, potremmo partire dal toponimo “Fontanabuona” per azzardare che a quelle latitudini l’acqua doveva avere proprietà straordinarie. E’ storia ormai risaputa: l’etimo deriva da un’antica fontana (di Canà) nota per l’acqua pregiata. Va detto che questa fonte sorge un poco lontano da Cicagna, nella frazione di Castello, nel comune di Favale di Malvaro, elevata alle cronache per essere stata la “quinta” della vicenda dei Cereghino. Un’altra storia.

Quella che prendiamo a raccontare qui, come spesso accade quando ci sono di mezzo le valli genovesi prima del ‘700, è invece una storia di contrabbandieri, gente manesca e dal grilletto facile. Ma procediamo con ordine. Non è difficile immaginare, anche per chi sia a corto di nozioni storiche, quale doveva essere il regime alimentare in una valle come la Fontanabuona, nel XVII secolo: castagne, fichi, qualche granaglia, e un poco di formaggio di capra o pecora. Ce lo dice anche Osvaldo Raggio, l’autore dell’ormai introvabile “Faide e Parentele” (Einaudi, 1988) in uno studio del 1987 su “Strutture di parentela e controllo delle risorse in un’area di transito: la Val Fontanabuona tra Cinque e Seicento”.

A rintuzzare l’economia, spiega Raggio, provvedevano le attività integrative: tessitura, produzione di carbone, intaglio del legno, emigrazione stagionale e, soprattutto, controllo delle vie di transito tra Padania e borghi costieri, in primis Rapallo e Chiavari. Era il “territorio”, allora, il vero oro della Fontanabuona, perché dai suoi sentieri transitavano olio e sapone, diretti in Lombardia, e grano, riso, lino, canapa, stoffe e formaggio richiesti in Riviera. I valligiani, che la povertà aveva reso tanto industriosi quanto spregiudicati, seppero creare una piccola economia fatta di mediatori, locandieri, osti, ma soprattutto contrabbandieri. Il traffico era sostenuto anche dai mercanti di Rapallo e dai nobili genovesi proprietari di terre olivetate, che all’idea di pagare pegno alla Repubblica non facevano i salti di gioia. Gli episodi di corruzione o tentata corruzione nei confronti di bargelli e birri erano molto frequenti, così come gli scontri o le intimidazioni. Ogni viaggio da e verso la pianura, per gli spallaroli, diventava un’avventura che si snodava lungo boschi e sentieri secondari protetti da alleati (parenti) e informatori.

Dopo il 1635 i fontanini controllavano sempre più capillarmente il mercato dell’olio, tendendo ad assumere in proprio il ruolo di commercianti. Oltre a ciò potevano vantare, di fatto, il monopolio della molitura del grano, dettaglio fondamentale per il nostro racconto e per la nascita del mito del pane cicagnino. O meglio, del mito dietro la storia: nel 1642 si contano ben 48 mulini nella valle, povera di tutto ma non di acqua. Di questi, 15 solo a Cicagna, in particolare a Monleone. Serve però il grano, per farli funzionare, e questo arriva in cambio – ça va sans dire – dell’olio. A Monleone, ogni lunedì e giovedì, si tiene un mercato dove è possibile acquistarlo. E’ aperto a tutti, anche ai “forestieri”, ma solo in teoria. L’area è controllata dagli uomini armati delle parentelle di Cicagna. Raggio cita i Leverone, i Fopiano, i Cazassa, gli Arata, gente dal carattere difficile, mercanti d’olio e proprietari dei mulini.

Un simile privilegio sarebbe potuto bastare, ma non ai mugnai fontanini: oltre al monopolio della molitura essi si garantirono anche quello della panificazione e della vendita del prodotto al minuto nell’intero arco del Tigullio, da Recco a Sestri Levante. Questo pane la cui popolarità arriva fino a noi veniva fabbricato durante la notte. Caricate le ceste, le donne – che ripetiamo, avevano fama di streghe, stando alle cronache del tempo – si distribuivano nei vari centri della Riviera, accompagnate da giovani armati, a fare fruttare il duro lavoro ma anche l’ingegno e la spregiudicatezza dei loro uomini, a cui le più miti città della costa badavano a non mettere troppo i bastoni fra le ruote, se è vero che Chiavari, molto scrupolosa nella regolamentazione del pan buffetto, lasciava quello bianco di Cicagna alla libera vendita. Troppo importante, possiamo supporre, garantirsi gli approvvigionamenti dalla pianura che giocoforza dipendevano dai valichi appenninici e dagli “umori” piuttosto volubili dei valligiani. A farne le spese erano i poveri artigiani di Riviera. Ancora sul finire del ‘600, in tutta Rapallo, si contava un solo fornaio. In tutte le strade del Tigullio si diffondeva, pungente e prepotente, il suadente aroma del “cicagnino”, portato in spalla da quelle giovani venditrici di cui la gente del popolo, con ogni probabilità, badava a non incrociare mai gli occhi.

In foto: dettaglio de “La Lattaia” di Jan Vermeer, 1658-1660 circa, Rijksmuseum – Amsterdam

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