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La paura della socialità

Generico marzo 2023

Quanti buoni propositi, quanti radiosi traguardi capita quotidianamente di ascoltare dal mondo circostante: in nome della paura da contagio pandemico occorre idealizzare e desiderare un ritorno alla normalità, riprendere gli abbracci, dichiarare la volontà di uscirne migliori da tale rovinoso evento.

Tutte parole, retorica vana. Resta solo la paura. E la sostanziale assenza di relazioni col prossimo. Resta un individuo contagiato dalla paura-di-tutto,  persino della solita influenza stagionale.

Il mantra allarmista dal tragico epilogo ha attecchito e si é diffuso a macchia d’olio, producendo un evidente disagio civico-sociale ad effetto divisivo.

Trattasi, in specie, dell’effetto dell’uso costante e scriteriato dell’ emergenza su un individuo risaputamente gracile, le cui scarne occasioni di incontro tendono a diventare s-contro, parafrasando Martin  Buber: un individuo che senza saperlo imita i capponi di Renzo Tramaglino quando si beccano tra loro.

Non è strano che tale individuo ne sia rimasto bellamente impelagato, né è strano che ostenti la propria anti-socialità come rimedio mentre inneggia ad una “libertà,  effetto di un’educazione ammaestrata,  che opera come veicolo di imprigionamento”,  recuperando  Herbert  Marcuse.

Stante l’odierno trend non ci si può statisticamente aspettare esordi divergenti da quelli in corso, poiché nel comporre realisticamente questa condizione é constatabile quanto la misura umana sia incapace di trarre vero profitto esperienziale dalle vicende: ciò (quasi) sconfessando il detto confuciano “ tutti vogliono due vite: la seconda comincia quando si capisce di averne una sola”.

La drammatica prospettiva si inscrive nell’ insuccesso di un’epoca contemporanea in cui  l’individuo, perso l’ appiglio valoriale della socialità, permane rabbiosamente aggrappato alla regola polifobica anti-sociale.

Con tali premesse, ogni proclama tecno-evolutivo diviene fandonia, pura retorica ad uso e consumo di una mediaticità profittatrice.

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