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‘Santa’: G8 2001, accadde a Genova, vent’anni fa

di Marco Delpino

“La memoria somiglia a un tizzone ardente sotto la cenere che non vuole spegnersi”. Questa frase ben si adatta a una sia pur breve rievocazione storica dei fatti del G8 di Genova, di cui ricorre in queste settimane il ventesimo anniversario.

Ero nel capoluogo ligure, nel luglio del 2001, nei giorni del G8, in una città in stato d’assedio, in un’atmosfera incredibile: un misto di attesa, tensioni, allarmi, paure e violenze.

Ero tra i tremila giornalisti accreditati a seguire il Vertice mondiale.

Il lunedì precedente, il 16 luglio, ero stato in Arcivescovado, dove il Cardinale Dionigi Tettamanzi stava approntando il documento sulla “globalizzazione dei diritti e della solidarietà” da consegnare agli otto Capi di Stato. Belle parole rimaste tali, purtroppo.

Quelle di Genova sono state giornate da archiviare in fretta, indegne di un paese civile e democratico. Giorni in cui troppi hanno sbagliato. Perché la protesta, attraverso la contestazione pacifica, rappresenta pur sempre un contributo al confronto, ma passare dai cartelli ai manganelli è un brutto segno, e la forza dell’intolleranza non può mai contrapporsi a quella della democrazia e della ragione.

Lasciata la pur accogliente “sala stampa” allestita ai Magazzini del Cotone, con tanto di “buvettes” e maxi schermi, preferii comportarmi da “cronista” e scendere in strada, trovando, invero, soltanto pochi e bravi colleghi “in prima linea”, armati di taccuino e penna, pronti a “catturare” gli umori della diretta.

Mi ritrovai così nel cuore della “zona rossa”, accanto al giornalista televisivo Bruno Vespa, da me “salvato” da un improvvido lancio di “teste d’aglio” opera di qualche “scalmanato”. Piccoli “antipasti” di ben altri… lanci.

Tra i manifestanti, oltre a decine di migliaia di persone perbene, c’erano vandali e criminali che distruggevano tutto senza un perché, con forze dell’ordine che, in molti casi, non sono intervenute o l’hanno fatto tardivamente. E quando l’hanno fatto, qualcuno è uscito fuori dalle righe, manganellando chi, con la violenza, non c’entrava per niente. Il caso della “scuola Diaz” è emblematico e le crude immagini hanno fatto il giro del mondo in questi ultimi 20 anni…

Nonostante l’imponente mobilitazione di poliziotti e carabinieri e l’incredibile dispiegamento di mezzi, nessuno è riuscito a tenere a bada qualche centinaio di “black-blocks” che hanno seminato disordini e distruzioni vanificando i cortei pacifici di decine di migliaia di giovani intenzionati a contestare, democraticamente e civilmente, i Potenti della terra. Al contrario è stata usata la mano pesante verso molti pacifisti disarmati, causando il ferimento di centinaia di passanti o abitanti e addirittura di giornalisti. Persino una pacifica e ignara suora “antiglobalizzazione” fu brutalmente percossa, in mia presenza, da alcuni agenti. Tutte queste vicende le raccontai su queste pagine e, l’anno successivo, in un libro, “Il dubbio e la ragione” (andato a ruba), ma non fui mai ascoltato da qualche autorità inquirente o da magistrati.

Tra le immagini “simpatiche” scattate, quella che mi ritrae accanto all’automobile blindata dell’uomo più potente del mondo, George W. Bush, posteggiata sul retro del piccolo colle di Palazzo Ducale, da me raggiunta e rimasta incustodita per almeno una decina di minuti (come da foto che pubblico in questa pagina).

Nel pomeriggio di quel fatidico venerdì 20 luglio, credo che la mia automobile fosse l’unica, oltre ai mezzi blindati della Polizia e dei Carabinieri, a transitare nella “zona rossa” alla ricerca di un varco per l’uscita, trovato, infine, dopo lunghi giri tra furgoni militari, nelle vicinanze della stazione Brignole, qualche minuto prima della chiusura totale dell’area.

Dopo duecento metri, oltrepassato il sottopasso di Brignole, finivo nel ben mezzo di un corteo di facinorosi, poco prima che iniziasse la “battaglia” vera e propria, sfociata nell’insanguinata guerriglia urbana che ha visto impegnate per ore forze dell’ordine e dimostranti.

In coda al corteo, notai chiaramente alcuni ultras, armati di spranghe e tubi divelti da impalcature lasciate incustodite, che venivano “istruiti” e indirizzati da un paio di persone di media età vestite elegantemente. Non ho mai saputo se costoro fossero i capi della guerriglia o “infiltrati” dei servizi segreti, ma ho sempre propeso per questa seconda ipotesi, dal momento che (a finestrino dell’auto abbassato) ho potuto ascoltare dettagli molto precisi riguardo all’ubicazione di “varchi” e la consistenza di forze anti-sommosse.

Riuscii a non subire alcuna contestazione o aggressione grazie (o, forse, nonostante) l’incosciente “esibizione” di una vistosa insegna “stampa” sul lunotto dell’auto e il pass giornalistico, altrettanto incoscientemente sbandierato dal finestrino dell’auto.

In chi ha vissuto quelle giornate è rimasto lo sconforto per una sconfitta collettiva della politica e della ragione per un “disinvolto” (ma il termine è usato in senso… ironico) uso di spranghe e manganelli.

Vent’anni dopo, rivivo quei momenti con tanta amarezza nel cuore. L’unica foto che continua a farmi sorridere è quella che mi ritrae accanto all’auto di George W. Bush sul colle di Palazzo Ducale, con l’autista personale del Presidente che, forse, si sarà chiesto: “Ma questo qui, come ha fatto ad arrivare fin quassù?”.

Pensiamo invece a come sarebbe stato il G8 se tutto, a Genova, si fosse svolto in maniera limpida, pacifica, in una città ordinata, con una polizia ferma ma democratica.

Ci sarebbe stato tempo e spazio per parlare dei diritti del Terzo mondo, per discutere di contestazione. Per polemizzare, anche.

C’è davvero da pensare che qualcuno voleva che ciò accadesse.

Poi, poco meno di due mesi dopo, sono bastati pochi minuti per offuscare il cielo, per gettare il disagio nelle nostre case e nelle nostre coscienze, la morte nei nostri cuori.

Successe in un giorno qualunque, in una giornata normale, tranquilla. Era persino “una giornata di sole” (simile a quella cantata da De Gregori nella canzone “Il cuoco di Salò”) che non lasciava presagire una imminente catastrofe.

Quel giorno non c’era alcun anniversario da ricordare; quella data non era segnata sui nostri calendari, ma sul calendario della Storia e, da quel momento, resterà nel ricordo collettivo come un giorno scolpito per sempre, importante come quel venerdì 12 ottobre 1492 in cui Colombo scoprì l’America o come quel lunedì 21 luglio 1969 in cui l’uomo posò il piede sulla luna e una targa su cui è incisa la frase: “Siamo venuti in pace per tutta l’umanità”.

Quell’11 settembre aprì nuovi scenari. E così, accanto alla globalizzazione economica, ci siamo abituati a convivere con la “globalizzazione della paura”.

Sforziamoci, allora, di pronunciarla quella parola: pace. Facciamolo aprendo i nostri cuori alla tolleranza, archiviando i contrasti, gli odi e gli egoismi, gridando che non ci sarà pace senza verità, che non ci sarà verità senza giustizia e che (come aggiunse Papa Giovanni Paolo II) non ci sarà giustizia senza perdono. E ritroviamo pure quelle quattro libertà di un memorabile discorso del Presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt del 6 gennaio 1941: la libertà di opinione, la libertà di culto, la libertà dalla povertà e, infine, la libertà dalla paura.

L’errore più grave è quello di sentirsi esclusi dalle libertà negando quel confronto esterno capace di aprirsi alla luce del dialogo.

Nell’autunno del 2001, vent’anni fa, a Portofino, la scrittrice Fernanda Pivano, apprezzata in Italia perché ebbe l’intuizione di farci conoscere i grandi autori americani, buona amica di Pavese e di De André, mi confessò di aver ripreso un’antica abitudine, quella del saluto della pace a braccia incrociate, che apparteneva al suo “scrigno dei sogni”. Quindi aggiunse: “Mi illudo che, per lo meno, il saluto della pace susciti l’idea della non violenza”.

E il cardinale Ersilio Tonini, dalle cui mani ebbi l’onore di ricevere l’ostia consacrata della comunione, aggiunse una frase profonda nella sua semplicità: “Ogni svegliarsi al mattino è un miracolo della vita”.

Ed è sicuramente, forse, questa l’unica ragione capace a fugare ogni dubbio della mia mente.

Lunedì 16 luglio 2001, in Arcivescovado a Genova, a colloquio con il Card. Dionigi Tettamanzi. Da sinistra: il Presule, il Sen. Vittorio Merloni (all’epoca Presidente di Confindustria), il giornalista di “Avvenire” Maurizio Blondet, Mons. Gaetano Canepa