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La ricchezza afflitta

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L’ equazione ricchezza uguale felicità é uno stereotipo di pensiero diffusamente contrabbandato e parte dall’idea che la qualità dell’esistenza sia proporzionata al possesso di ingenti somme di denaro, di beni materiali.

Sintetizzando al massimo, il ricco per antonomasia è sempre più felice del povero.

Sostenere il contrario, anche sulla base di esempi concreti, diviene un esercizio dialettico funambolico, destinato a precipitare nella contraddizione, nell’insensatezza, nell’ilarità.

Sia come sia, assalendo la questione alle spalle e riconoscendo una generale fondatezza alla premessa, ci si propone di ri-parametrare il raffronto esistenziale tra la consistenza censuaria e la pratica giornaliera del buon umore, già in sé marcatore di qualità.

Per comune opinare, la principale causa dell’ in-felicità è correlata al dis-agio economico. Per simmetria, la causa della felicità è determinata dalla condizione di agiatezza e dal favorevole coniugio tra umore & conto corrente, tra gratificazione & PIL (prodotto interno lordo),  elementi inseparabili come i pirati & il rum.

Tale versione è l’infausto esito di un’economia di mercato che, tra i vari prodotti in commercio, produce in dosi massicce alienazione e nevrosi,  equamente distribuite ad  ogni livello sociale.

Detto fatto, nessuno azzardi il concetto che un servo sia più felice di un padrone (termini in prestito da F. Hegel), poiché incorrerebbe nell’eresia o nel delirio.

Estremizzare tuttavia agevola la dissacrazione dell’agiatezza e la espone in una cornice  inusuale, dove un povero, a sua insaputa,  può avere una qualità di vita più soddisfacente di un ricco.

L’agiatezza economica, malgrado assurga ad obiettivo individuale globale, è visibilmente lontana dal rappresentare l’ antidoto al malessere dell’esistenza umana. L’agiatezza, appena superata la soglia di casa, può  disvelare pari afflizioni e granitiche insoddisfazioni.

Il presupposto per cui la “felicità è diventata una questione economica”, citando Zigmunt Bauman, pare  condurre verso tale alterazione.

In generale, l’ affinità elettiva tra felicità & beni materiali resta debole nei presupposti, fieramente sostenuta da una Società la cui parte agiata, convenzionalmente privilegiata, è la prima a manifestare visibili segni di un malessere mimetizzato solo all’apparenza,  per mezzo di simboli consumistici.

La considerazione di Freud “la felicità è la soddisfazione ritardata di un desiderio originario” conduce al dato incontestabile che  nessuna ricchezza materiale può condurre alla felicità adulta poiché il desiderio del denaro, come simbolo, mai è  rientrato nei desideri dell’infanzia.

In conclusione, a corredo di pensiero, val la pena riflettere sull’affermazione di Massimiliano Robespierre: “voglio essere povero per non essere infelice”

 

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