“Camminiamo insieme avendo un’unica rotta” - LevanteNews
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Omelia

“Camminiamo insieme avendo un’unica rotta”

Nell'omelia di insediamento il nuovo vescovo di Chiavari aggiunge: "Aver fede significa abbandonarsi a Dio anche quando lui “dorme”, perché sappiamo che nessuna difficoltà può vincerci"

Giampio Devasini, vescovo, diocesi

Carissimi

il saluto che sento di dover rivolgere a tutti voi che partecipate a questo momento bello e significativo per la Chiesa di Chiavari non può che essere quello che la liturgia pone sulle nostre labbra «La pace sia con voi»; sì, carissimi, la pace, che è il dono grande del Risorto, sia con tutti noi e ci renda operatori di pace!

Anche in questa domenica, il Signore ci ha convocati per donarci la sua Parola e noi vogliamo metterci in ascolto ed accoglierla nella nostra vita, per la nostra vita.

Nelle domeniche che stiamo vivendo l’evangelista Marco mostra Gesù come dominatore delle malattie e delle potenze demoniache. Oggi il suo potere si allarga fino ad abbracciare gli elementi della natura nella loro raffigurazione più grandiosa e potente: il mare, «acqua perigliosa» (Inferno, 1.24), come direbbe Dante. Nella visione biblica questo elemento è un mondo carico di misteri e di pericoli, a motivo della profondità dei suoi abissi, dell’amarezza delle sue acque, del perpetuo fluttuare delle sue onde, della sua potenza distruttrice quando si scatena. Diventa perciò l’immagine più eloquente ed efficace delle forze del male orgogliose e minacciose.

Eppure questa realtà potente e tumultuosa è sottomessa a Dio, il Creatore; ma qui Gesù non si presenta come il garante e il tutore dell’ordine naturale; qui gli elementi cosmologici e quelli antropologici concernenti la paura dell’uomo servono a dire un’esperienza singolare. Servono a dire d’una presenza e d’un intervenire di Dio del tutto “paradossale” («a poppa, sul cuscino, dormiva»); presenza e intervento che non possono essere sperimentati che nella fede. Presenza reale eppure nascosta e fede messa alla prova sono i due poli di tutto il racconto dell’evangelista. Non per caso papa Francesco ha scelto proprio questo testo evangelico in quella preghiera vissuta in una piazza San Pietro drammaticamente deserta; preghiera per un tempo angoscioso e che sfida ogni nostra certezza.

Certo il Dio che Gesù ci fa conoscere in questa occasione – e in questo nostro tempo – non è un Dio dispensatore di facili sicurezze; non è la formula risolutiva delle nostre difficoltà e dei nostri problemi. E la fede richiesta non è né fuga né disimpegno: è impegno continuo che continuamente viene messo alla prova.

Aver fede significa abbandonarsi a Dio anche quando lui “dorme”, perché sappiamo che nessuna difficoltà può vincerci; Dio le ha già vinte.

Una fede così non isola dal mondo fino a trascurare i problemi del mondo. Se il piano di Dio è quello di liberare il mondo dal male, a questo progetto l’uomo è chiamato a collaborare, lottando al suo fianco, prendendo sul serio i problemi del mondo, senza perdersi di coraggio.

Vi confido che mi sorprende molto la costante domanda che i discepoli si pongono dopo i segni operati da Gesù: «Chi è dunque costui?». Mi sorprende e mi fa pensare che non sia un atteggiamento “difettoso” e “limitato”; forse rinvia all’impossibilità di esaurire con l’umana conoscenza la realtà di Gesù. E anche la fede non sa tutto di Gesù, sennò sarebbe solo una specie di “ragione super”. La fede è sperimentare l’insuperabile “affidabilità” di un Dio conosciuto attraverso Cristo che del Padre suo – l’Abbà – sempre si fida: anche nel cuore della tempesta, anche nel Getsemani, anche sulla croce…

Sono questi, carissimi, i sentimenti che abitano il mio cuore

mentre con gioia e trepidazione inizio oggi con voi e per voi il mio servizio episcopale.

Mi viene da dire che mi “imbarco” con voi su questa barca splendida e fragile che è la Chiesa, la santa Chiesa che vive in Chiavari. Non salgo a bordo per fare da autoritario capitano, bensì per condividere tutte le fatiche e le gioie della traversata. Con voi sento la paura, con voi prego gridando: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?», con voi arrossisco e umilmente abbasso il capo di fronte al rimprovero di Gesù: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?», con voi ripeto: «Chi è dunque costui?».

Non un autoritario capitano, dunque, ma un “pastore”, così come il magistero del Concilio ecumenico Vaticano II – che è e resta la “carta fondamentale” cui ispirare il nostro cammino di Chiesa – tratteggia la fisionomia del vescovo.

Per quali strade, carissimi, avvieremo il nostro “camminare insieme”? Permettete che vi proponga una riflessione che mi sta particolarmente a cuore.

Partiamo da un interrogativo: “Dove accade la Chiesa?”, dove essa si fa avvenimento significativo per l’uomo? Per l’attuale congiuntura culturale? E potremmo rispondere così: “La Chiesa accade là e quando qualcuno annuncia a qualcun altro che Cristo è risorto”.

Se torniamo alle pagine là dove gli Evangeli parlano dell’evento della risurrezione, ci accorgiamo che tale evento è proprio ciò che “mette in moto” e giustifica, dà senso a tutto quanto è avvenuto prima e a tutto quanto avverrà dopo: l’evento della risurrezione è l’evento centrale, fondamentale, fontale della fede e dell’esistenza cristiana; del singolo cristiano e della Chiesa. Ripensiamo alle donne che vanno «di buon mattino» al sepolcro, agli apostoli e a tutti i loro incontri con il Risorto; ripensiamo ai due di Emmaus; ripensiamo al mattino della Pentecoste… Forse possiamo individuare alcune “costanti” del rapporto con l’evento della risurrezione.

Sembra che a mettere in moto tale rapporto sia un’inquietudine, una ricerca che fa “uscire di casa”, che impegna a interrogarsi e a interrogare, ad ascoltare, magari anche a dubitare…

Un altro elemento che appare evidente è che nessuno perviene “da solo” a capire, a conoscere, a riconoscere, ad incontrare; occorre incontrarsi – e ricevere l’annuncio – con dei “testimoni”. E la “strada maestra” affinché possiamo essere davvero una Chiesa così è lo stile sinodale. Sulla sinodalità abbiamo bisogno, tutti insieme – presbiteri, diaconi, religiosi e religiose e laici – di avviare un serio esame di coscienza. Non si tratta, infatti, di trovare una “soluzione” organizzativa o più funzionale: ma di convertirci seriamente, a partire dal profondo del cuore e dalla mentalità con cui viviamo la Chiesa.

La sinodalità non è un metodo come tanti per dare la parola a tutti e agevolare dunque l’ascolto reciproco e le conclusioni condivise su proposte che riguardano sia la vita della Chiesa che la pastorale e la missione. La sinodalità, piuttosto, ci aiuta a vivere pienamente il nostro essere popolo di Dio in cammino, in discernimento e ascolto reciproco fino a programmare insieme, decidere insieme e operare insieme.

Sinodalità esprime il cuore stesso del nostro essere comunità di discepoli alla scuola del Maestro unico che è Cristo e guidati dal suo Spirito. La Chiesa non “fa” un Sinodo ma “è” Sinodo. Fa parte del suo stesso DNA dunque e della sua vita interiore vivere in un permanente cammino di conversione alla comunione con il suo Signore e tra tutti i suoi membri.

E poi non dobbiamo mai dimenticare che la sinodalità è un dono che il Signore fa alla sua Chiesa ogni domenica nella celebrazione eucaristica, fonte prima di comunione e di missione, cuore di tutta la pastorale della comunità. È questo il modello di Chiesa che siamo chiamati a vivere poi giorno per giorno nel tessuto concreto delle nostre relazioni fraterne e nella testimonianza che offriamo al mondo.

Non illudiamoci che la sinodalità sia un percorso in discesa, perché al contrario è in salita, o meglio in cordata, per cui se cede uno, cede tutta la squadra. «Il tempo è superiore allo spazio», ci dice ripetutamente Papa Francesco, e quindi il tempo necessario per avviare la sinodalità ed esercitarla nel modo migliore non deve scoraggiarci. A piccoli passi però, andando avanti senza perdere nessuno per strada: questa è la nostra sfida, su cui tutti con umiltà e buon senso dobbiamo sentirci impegnati. E’ indispensabile ascoltare e valorizzare ogni apporto, anche il più umile, ascoltare tutti senza preclusioni, accompagnare con pazienza, benevolenza e gradualità il cammino spirituale di ogni persona non spegnendo mai il «lucignolo fumigante», in modo da incoraggiare in particolare i più estranei e lontani a sentirsi parte viva della Chiesa.

Camminare insieme, avendo un’unica rotta e un’unica bussola: Lui, il Signore Gesù; camminare insieme, seguendo le sue orme! Sì, carissimi, “vestigia Christi sequentes”, perché, come ci dice la Parola di Dio, “andar dietro è cosa buona!”

Da Telepace riceviamo e pubblichiamo il testo dell’omelia pronunciata dal vescovo diocesano durante la messa